Cinque, il numero ponte tra terra e cielo

Sono cinque anni che appartengo alla famiglia Facebook e da quel 9 dicembre 2019 il mio dialogo con le persone che mi seguono e che hanno la pazienza di leggermi, non si è mai interrotto. Il numero cinque mi ha stimolato a riflettere su quanto di simbolico ci sia su questa cifra.

La prima considerazione riguarda i cinque sensi che consentono di conoscere il mondo, di esplorarlo o di assaggiarlo, come accade nelle prime fasi della vita. Ogni cultura ha la sua simbologia rispetto al numero cinque, però un aspetto che ricorre riguarda le cinque parti che compongono l’essere umano, che Santa Ildegarda di Bingen, scienziata e studiosa del XII secolo, ha sviluppato nella sua teoria che divide il corpo umano in cinque parti uguali: “L’uomo si divide per lunghezza, dalla testa ai piedi, in cinque parti eguali; per larghezza, formata dalle braccia distese dall’estremità di una mano all’altra, in cinque parti eguali. Tenendo conto di queste misure eguali nella lunghezza e di queste cinque misure eguali per larghezza, l’uomo può iscriversi in un quadrato perfetto” (Chevalier J.,Gheerbrant A.,Dizionario dei Simboli, BUR,1999,Milano, pag.278).

Il cinque è il numero della Terra, che, con i quattro punti cardinali più il centro, forma un quadrato e se lo sovrapponiamo al cerchio, crea un ottagono, simbolo della congiunzione tra terra e cielo ovvero l’aspirazione verso la spiritualità.

Il cinque è anche il numero del pentagramma, dove ognuno può comporre lo spartito della propria esistenza alla ricerca dell’armonia, lasciando un’impronta di sé che, del piede o della mano, è sempre composta di cinque dita. Il mio intento, per essere su una pagina social, forse è anche quello di lasciare un’impronta che possa segnare un cammino verso la conoscenza guidato dalla psiche. Un matrimonio, quindi, tra virtuale e reale che ha raggiunto il primo lustro, fase purificatrice per passare a nuovo quinquennio, come antichi riti suggerivano. A questo punto, non resta che aprire una nuova pagina verso nuove riflessioni ringraziando sempre le persone che dedicano cinque minuti del loro tempo a leggermi. Grazie

Passaggi

Un albero che aveva delle foglie secche ancora attaccate al ramo pieno di neve, mi ha evocato l’immagine di due stagioni che si accavallano e convivono per un po’. Convivenza che, a volte, anche nel passaggio da una fase a un’altra della vita si produce, per accompagnare meglio la consapevolezza di quanto sia utile lasciar andare con quanto sia necessario accogliere. Il passaggio stagionale dall’autunno all’inverno è alle porte, con il solstizio invernale che avvia la parabola ascendente del sole e l’autunno, che conclude la parabola solare discendente. La vita è un continuum di fasi che si chiudono e si aprono, ma che richiedono una necessaria cernita di ciò che non è possibile traslocare nella nuova fase, rimanendo in una transizione in cui la coscienza prende atto dell’inevitabile movimento. Importante è non indugiare nelle fasi transitorie perché, come per il nostro albero, le foglie non possono rimanere attaccate al ramo a lungo, quindi prepararsi al foliage significa prepararsi all’inverno, altrimenti si potrebbe essere travolti dai cambiamenti senza averne consapevolezza. Il congedo può essere difficile e complesso perché lasciare ciò che si è conosciuto rende la separazione dolorosa. La separazione, però, è emancipazione e non abbandono, anzi, tornando al nostro albero, le foglie che cadono sono humus per le radici, donando forza per accogliere la nuova stagione invernale, dove le grandi trasformazioni avvengono, come per ognuno di noi, nell’invisibile sottosuolo intriso di vita.

PONTE DI MAGGIO

Nel mese di maggio ho preso parte a tre importanti eventi, apparentemente diversi l’uno dall’altro, ma in realtà congiunti dal ponte della creatività. L’8 maggio ho partecipato a Roma alla presentazione insieme all’autrice Cinzia Petrucci di Fu dolce il canto, una raccolta di poesie scritte sull’onda della melodia del canto della musica, attraverso una efficace trasposizione lirica di alcune partiture musicali di Fryderyk Chopin e di Ludwig van Beethoven.

Il 13 maggio, invece, alla Triennale di Milano con Venceslao Cembalo e Antonio della Guardia è stato riproposto il percorso artistico l’Isola delle Storie, presentato già nel 2022 a Roma presso Spazio Taverna.

Il 17 maggio, infine, a Cesate (Milano) si è svolta un’ edizione inedita del progetto itinerante, promosso dall’Ensemble di arpe e voci Sinetempore Harp Attack, “Un’Àncora per non dire più Ancóra, cambiare accento per cambiare prospettiva”, che ha visto la partecipazione della Scuola di Danza Mudra di Cesate, che ha contribuito a creare atmosfere molto suggestive.

Eventi che si sono sommati quasi in una sincronica sequenza, che hanno attraversato la sfera emotiva lasciando sensazioni uniche e irripetibili.

Poesia, arte, musica e danza declinano la creatività in tante forme, costruendo un ponte che consente di attraversare i confini di qualunque espressione artistica, utilizzando un codice linguistico universale che non ha bisogno di traduzioni.

Molte le persone che hanno partecipato ai diversi eventi percorrendo un ponte simbolico, ma costellato di tangibili emozioni. Grazie!

25 Novembre = Giorno dell’Argento

Il venticinquesimo anniversario di matrimonio è chiamato d’argento, per sottolineare la preziosità del traguardo raggiunto, ma con ancora tanta strada da percorrere per raggiungere l’oro del cinquantesimo. Per associazione numerica potremmo colorare d’argento il 25 novembre, giorno dedicato alla ricorrenza internazionale per la lotta contro la violenza sulle donne, perché l’argento è il metallo che più di altri può rappresentare la difficoltà per giungere al traguardo d’oro della eliminazione della violenza.

L’argento, come si può verificare su un qualunque oggetto creato con questo metallo, reagisce all’aria e perde la sua brillantezza, fino ad arrivare lentamente all’opacità primitiva. L’argento ha bisogno di costante manutenzione, non è auto-lucidante e può essere erroneo pensare che una volta ottenuta la sua lucentezza rimarrà così per sempre. La metafora dell’argento è estendibile a tutto ciò che richiede attenzione costante e cura continua, come già ebbi modo di spiegare durante l’intervista rilasciata nel 2009 all’Agenzia di Stampa Giornalistica ADN Kronos (clicca qui per leggere l'articolo). La violenza contro le donne esiste purtroppo da secoli e negli ultimi decenni sembra essersi moltiplicata, nonostante le innumerevoli iniziative mirate alla prevenzione. Le ipotesi riguardano le radici culturali della violenza, i pregiudizi e gli stereotipi che indugiano ancora nella percezione della emancipazione del femminile e la labile memoria degli eventi cruenti ed efferati contro le donne che affollano le pagine di cronaca, ma che volano via dopo qualche giorno. Per questo motivo l’argento ci aiuta a capire quanto l’attenzione debba essere costante e la divulgazione psico-pedagogica, finalizzata alla costruzione delle coscienze, prima ancora della loro sensibilizzazione, sia fondamentale. La lucentezza della consapevolezza profonda del rispetto per l’essere umano si produce con il lavoro costante e continuo delle coscienze. La prevenzione della violenza sulle donne necessita di riflettori sempre accesi affinché si vada oltre il pregiudizio e si interiorizzi una immagine del femminile non più stereotipata e quindi legata a mansioni e ruoli che negli ultimi cento anni sono cambiati. Il processo del cambiamento è lungo, ma non bisogna desistere, perché proprio come l’argento basta poco per vanificare il lavoro compiuto e ritornare alla dimensione grezza e primitiva delle coscienze.

La costruzione delle coscienze è l’intento che il progetto itinerante “Un’Àncora per non dire più Ancóra, cambiare accento per cambiare prospettiva”, da me ideato e promosso, si prefigge insieme all’Ensemble, di arpe e voci, Sinetempore Harp Attack. Un àncora di salvezza, quindi, affinché tutte le donne possano approdare in un porto sicuro, per non dire più ancóra, tutte le volte che si ha notizia di un femminicidio. L’Ensemble Sinetempore, composto di quattro arpiste e quattro arpe celtiche, propone un repertorio di ballate antiche coniugate al presente, tratte dal canzoniere popolare internazionale, le cui tematiche vertono sulle vessazioni e le violenze che le donne hanno subito nei secoli. Lo strumento dell’arpa non è una scelta casuale, poiché le corde di cui è composta producono vibrazioni che meglio di altri strumenti entrano in risonanza con le emozioni, attivando canali di comunicazione più efficaci di tante parole. L’ascolto della musica e dei testi consente, a chi ascolta, di identificarsi con i personaggi e la storia, lasciando che le emozioni, sollecitate dalle risonanze dell’arpa, affondino nella propria coscienza producendo un effetto catartico. Il lavoro sulle emozioni consente di costruire, ma, nello stesso tempo, di scuotere le coscienze risvegliandole, da un sonno, lungo e inconsapevole, al valore della vita e al suo rispetto.

 

Sira Sebastianelli

psicoterapeuta-arpaterapeuta

Convalescenza del dolore

Anni fa vidi un documentario, di cui non ricordo l’autore, girato negli anni sessanta tra gli abitanti di piccoli paesi italiani. Alle persone intervistate si ponevano domande semplici, ma che stimolavano risposte psicologicamente complesse. Ricordo, per esempio, una signora che, per spiegare come vivesse e perché vestisse di nero, semplificò con due parole, molto significative, il tempo del lavoro del lutto, dicendo: “Sono nella convalescenza del dolore”. Mi è sembrata subito una sintesi perfetta per descrivere il periodo successivo alla perdita di una persona cara. La convalescenza è ormai una parola desueta, non si usa più neanche per indicare i giorni di graduale ripresa successivi a una influenza, considerando la necessità di rientrare subito a lavoro e alle incombenze familiari o domestiche. In realtà, convalescenza è un termine che racchiude il mondo della rigenerazione, della elaborazione e del recupero di energia rispettando i tempi individuali. Nel terzo millennio la convalescenza del dolore è sicuramente vissuta con modalità diverse rispetto al passato, forse non è neanche più contemplata nell’obbligato rapido percorso di ripresa della vita quotidiana. Vorrei, quindi, avviare una riflessione sui tempi di elaborazione delle separazioni, perdite e lutti che si concedono alla psiche, considerando anche l’avvicinarsi della giornata dedicata alla commemorazione dei defunti. L’elaborazione del lutto o “lavoro del lutto”, come direbbe Sigmund Freud, è un processo psichico che richiede un tempo cronologico oltre che psicologico, affinché si possa superare la sofferenza per la perdita di una persona cara, estendibile ad altre perdite come per un lavoro, una casa, un rapporto significativo o una condizione di vita favorevole. “Il tempo non lenisce, ma trasforma. Trasforma e rielabora fino a rendere comunicabile ciò che prima potevamo cogliere solo attraverso la partecipazione emotiva. Il sentimento non è cambiato, solo che adesso riusciamo a trovare ‘le parole per dirlo’ e questo sembra darci un po’ di consolazione” (Carotenuto,A. L’eclissi dello sguardo, Milano, Bompiani,1997,pag.169). Il silenzio accompagna l’esperienza del lutto, quando si ha bisogno di placare, come recita una poesia di Emily Dickinson, il trambusto che segue la morte. Luctus è il termine latino derivante dalla radice

indoeuropea ru-j che ha il significato di piangere, sentire dolore, ma anche rompere, tagliare e con l’ampliamento della radice ru-d rumore. Radice etimologica del lutto che racchiude le fasi dell’elaborazione, diniego, accettazione, distacco, che indicano la strada per attraversare il dolore e la sofferenza. Quando, però, il diniego sconfina nell’accettazione rendendo difficile il distacco, si può bloccare l’elaborazione del lutto con il rischio di cristallizzare il dolore. Il rispetto dei tempi soggettivi è fondamentale come anche l’adeguamento al nuovo ritmo della vita in una fase luttuosa che richiede rigenerazione e recupero di energia psico-fisica, sintetizzabile con l’opportuna convalescenza del dolore.

Maggese d’agosto!

Maggese è il termine che identifica un terreno agricolo messo a riposo, per consentire alla terra di ritrovare nuova fertilità. Avviene in maggio, da qui maggese, la vacatio della terra, periodo di sospensione rigenerante per trovare nuova fertilità. Gli uomini e le donne che lavorano, per consuetudine o per necessità, scelgono un mese estivo, più spesso agosto, per vivere il proprio maggese, un tempo di riposo, ma predisponente a nuove semine. La vacatio, cioè l’assenza della routine quotidiana che dovrebbe caratterizzare la vacanza, non è un periodo improduttivo ma di diversa produttività, come avviene per un terreno messo a maggese. Il mondo della Natura insegna quanto sia importante rispettare le pause, il silenzio, la scansione del tempo e l’attesa, per sospendere il fare e dedicarsi all’essere nella sua essenza. Il turbinio degli accadimenti convulsi dei mesi invernali insieme al frastuono dei pensieri e delle preoccupazioni, dovrebbero lasciare spazio, nel periodo di riposo della vacanza, alla leggerezza di chi vive senza tempo, anche solo per un attimo intriso, però, di eternità. Nuova fertilità, nuove coltivazioni per nuovi progetti possono nascere dal proprio terreno interiore messo a riposo nei periodi di passaggio della vita, nonostante la sensazione di sentirsi a volte “…come l’aratro in mezzo alla maggese” delle Lavandare di Giovanni Pascoli.

Toccata e fuga

Quante volte nel linguaggio comune è usata l’espressione “toccata e fuga” per intendere una presenza veloce e fugace, quando il tempo a disposizione è limitato, ma tante sono le incombenze da portare a termine? Un desiderio di ubiquità si cela dietro il bisogno di essere ovunque, rincorrendo gli impegni presi e non procrastinabili? Difficile rispondere, ma se ci fermassimo a riflettere, facendoci guidare dalla psicologia e dalla musica forse potremmo trovare un nuovo senso, ritmo e sonorità all’esistenza.

In effetti, la toccata e la fuga sono forme musicali dove le note si inseguono quasi affannosamente, ma armoniosamente, senza mai raggiungersi. Carl Gustav Jung associava l’Arte della Fuga a un Mandala (cerchio sacro) per la sua circolarità, considerando che la “la forma musicale è espressione del carattere circolare dei processi inconsci”(Jung, C.,G., Lettere II, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2006, pag.153).

Johann Sebastian Bach, nella famosissima Toccata e Fuga in Re minore, ci ha magistralmente esemplificato cos’è una toccata e una fuga, quasi preconizzando il bisogno dell’essere umano, nel terzo millennio, di ritrovare nuova armonia. Toccata e fuga, quindi, non per illudersi di possedere il dono dell’ubiquità, ma per comporre la partitura della vita che include intervalli, pause e respiro, parole chiave per accedere a nuovo senso, ritmo e sonorità. È possibile che Johann Sebastian Bach, musicista e compositore del ‘700, fosse consapevole della componente terapeutica della musica, tant’è che “[…] scrisse Le Variazioni di Goldberg per i clavicembalisti di un conte che non riusciva a dormire. Esse sono forse l’esempio più grandioso di terapia musicale.” (Rasche, J., Il canto del leone verde, Roma, Edizioni Magi, 2006, pag.50).

Il linguaggio comune potrebbe aver mutuato l’espressione toccata e fuga dalla musica o viceversa, ma la riflessione rimane la stessa se la sensazione è comunque di rincorrere qualcosa senza mai raggiungerla o magari solo appena toccarla. L’armonia in una composizione può suggerirci quanto l’ascolto della musica consenta di connettersi con la parte più profonda di sé, fermandosi un istante per ritrovare un punto da cui ripartire con nuovo ritmo:

 

“E tutto il resto eccolo qui –

È come Bach suonato sul bicchiere

per un istante.”

(Szymborska W., Progetto un Mondo, da La gioia di scrivere, Milano, Adelphi Edizioni, 2009, pag.99)

Facoltà del dubbio

“…..soltanto la dimensione del dubbio e la capacità di interrogarci indefessamente possono fornirci la speranza di approdare alla verità.”
(Carotenuto A., L’Ombra del Dubbio, Bompiani)
Il dubbio è sempre stato il motore di ricerca del pensiero! I grandi filosofi del passato avviavano le loro speculazioni, sull’esistenza dell’essere umano e su quanto percepisse, attraverso la lente del dubbio per amplificare la conoscenza. Il dubbio, nel tempo, ha perso il suo significato di ricerca, ma ha assunto quello di indecisione. Il dubbio spesso rende difficile orientarsi al punto di congelare qualsiasi scelta nella paura di sbagliare. Forse, è proprio nel timore di incorrere in un errore che si cristallizza il pensiero. La primavera, per i ragazzi e le ragazze che sostengono l’esame del quinto anno di scuola superiore, è la stagione per ipotizzare le facoltà universitarie cui iscriversi e, considerando il ventaglio delle possibilità offerte dagli Atenei, il dubbio potrebbe insinuarsi. Spesso anche le reali occasioni lavorative future interferiscono sulle scelte dettate dall’interesse e dalla passione del presente. Quando si evoca il dubbio non si può non pensare all’Amleto di Shakespeare, opera che più di altre “esprime con notevole maestria quel dubbio esistenziale fondamentale che l’uomo di ogni tempo serba nel proprio animo” (Ibidem, pag. 5).
L’indecisione è anche incertezza? La domanda stimola riflessioni, ma ciò su cui è utile porre il focus è quanto il dubbio sia sostenuto da richieste esterne a sé, che condizionano la libertà di scegliere o di modificare la scelta nel tempo. Il terzo millennio è caratterizzato dalla necessità di essere veloci, reattivi, vivere già nel futuro, essere in lotta con il tempo che scorre inesorabile, al punto di temere una pausa di riflessione pur rivendicando il diritto di fermarsi! Le nuove generazioni che non hanno conosciuto l’analogico trovano facilità a muoversi nel digitale che
favorisce le scelte rapide, ma si disorientano quando la componente emotiva chiede tempo per discernere. Il bivio include sempre il rischio di sbagliare strada, ma non sempre l’errore è vano se consente di diradare le ombre che offuscano la luce. La riflessione non è esitazione, come il dubbio non è indecisione se ci si riappropria del pensiero speculativo che come una stella polare indica la strada.
Nell’ etimo indoeuropeo d+vi (che oscilla tra due) è la radice da cui ramificano il dubbio e il doppio, sottolineando la dualità che incombe ogni qual volta si è chiamati a scegliere. L’oscillazione tra due, tra luce e ombra, può anche consumare la vita quando il dubbio sconfina nella ossessiva ricerca di certezza, non trovando conforto nel pensiero razionale, perché in questo caso prende il sopravvento il bisogno di agire un controllo sulla scelta, che non è mai valutata come quella giusta.

Il paradosso della gioventù

È da diverso tempo che avverto un corto circuito quando leggo notizie di cronaca che, da una parte, esaltano l’impegno profuso dai ragazzi e dalle ragazze per salvare il Pianeta Terra e, dall’altra, stigmatizzano comportamenti pericolosi dei giovani alla guida di automobili incapaci di salvare e stessi.

Il paradosso, che mi sembra evidenziarsi, ritengo stia nel constatare che ci siano ragazzi e ragazze attivi nel tutelare il loro futuro, delineando lucidamente i comportamenti inadeguati degli adulti, ma ci siano anche ragazzi e ragazze insensibili nel valutare le conseguenze della loro guida spericolata, che ogni settimana conta decine di morti sulle strade, al punto di rischiare l’elisione dalla loro vita non solo del futuro, ma anche del presente. La previsione della ricaduta nefasta di una condotta errata dovrebbe potersi estendere dall’eccesso di inquinamento all’eccesso di velocità, ma è un parallelismo inefficace.

Un’ipotesi potrebbe essere formulata considerando che i giovani, quando sono alla guida di un’automobile, sopravvalutino se stessi nella destrezza al volante sentendosi fatalmente immortali. Eppure, se le nuove generazioni hanno paura di non avere futuro perché la Terra sarà invivibile tra cinquanta anni, ugualmente dovrebbero averne quando mettono a rischio la propria vita shakerando droghe, alcol e velocità. Anche il Presidente della Repubblica ha esortato tutti a una guida prudente, ma sembra senza esito. Da decenni si attivano campagne pubblicitarie per smuovere le coscienze ai valori della vita e alla responsabilità che ognuno ha nei confronti di se stesso, ma sempre senza particolare successo. L’ebbrezza di affondare il pedale dell’acceleratore e vedere scorrere la vita fino allo schianto prevedibile, è, sicuramente, un film già visto, ma che si replica senza pause. Il tachimetro che sale vertiginosamente produce una frastornante eccitazione, che ottunde la coscienza e vanifica ogni buon proposito salva-vita. La morte che sfida la vita, come pulsioni opposte che si misurano in un braccio di ferro spietato, dove, però, chi vince ha comunque perso! Mi viene in mente Icaro, che con ali di cera è volato verso il sole, ignaro della inconsistenza della materia delle sue ali, cadendo inesorabilmente. Gli antichi greci chiamavano ὕβρις (Hýbris) la tracotanza che spingeva l’eroe oltre i confini umani, che gli dei punivano sempre, affinché si evincesse il mancato riconoscimento dei propri limiti. È probabile che il paradosso dei giovani stia proprio nel non percepire i propri limiti, ma nello stesso tempo nel saper riconoscere e condannare i limiti degli altri, quando non rispettano se stessi, il mondo e la natura.

Vero è che non tutti i giovani cercano l’ebbrezza della velocità, dell’alcol e delle droghe, avendo sperimentato emozioni altrettanto psichedeliche ma costruttive. La giovane età, però, per quanto esaltata come la migliore stagione della vita, nasconde molte incertezze e disagi affrontati con strumenti e risorse non sempre adeguate. I venerdì dedicati al futuro, della protesta dei giovani di Greta Thumberg, rischiano di naufragare il sabato, perché la giovane età è paradossale per definizione, collocandosi agli estremi del bene e del male nella ricerca difficile di un equilibrio. Se i giovani lottano per salvare il futuro, gli adulti dovrebbero lottare per salvare il loro presente, offrendo spunti creativi per esprimere difficoltà e inadeguatezze, per sostenerli nell’accesso alla cultura, allo sport e all’esplorazione di se stessi e del mondo, considerandoli parte viva e attiva del presente. Più i giovani si sentono parcheggiati in attesa della realizzazione di sé, più cercano di rincorrere quel futuro che non arriva mai, sorpassando pericolosamente il presente.

Sorpresa!

Con l’arrivo della Pasqua ritorna protagonista l’uovo, insieme alla sua simbologia. La mia attenzione, però, si pone all’interno dell’uovo che tipicamente è luogo di sorprese. Da dove origina la sorpresa? L’uovo è un involucro sufficientemente resistente per proteggere qualcosa di prezioso, ma nello stesso tempo perforabile affinché ceda all’energia della vita che nasce. La Pasqua cade nella stagione primaverile quando la Natura si risveglia e dalla terra spunta nuova vita, come il pulcino dall’uovo che ne diventa il simbolo.

Il termine sorpresa in indoeuropeo ha la radice mir, che si ritrova nel latino miror con il significato di ammirare o meravigliarsi nello stupore dell’inaspettato. Lo sguardo dell’infanzia si lascia naturalmente rapire dalle sorprese, perché denso di curiosità per il mondo nuovo e sconosciuto, tanto da volerlo assaggiare per conoscere visceralmente il contenuto di ciò che suscita tanta emozione. La sorpresa dell’uovo pasquale dovrebbe poter riprodurre antiche emozioni di meraviglia e stupore, ma l’adulto di oggi ne è sempre meno capace, perché non è impresa facile sgombrare la mente da preoccupazioni e problemi. Eppure, vivere l’attimo che precede l’apertura dell’uovo, prima ancora di vedere cosa contiene, senza avere aspettative, per lasciarsi trasportare dentro lo specchio magico di Alice con il desiderio e l’incanto di un tempo, sarebbe la sorpresa più bella da fare a se stessi per Pasqua.