11 SETTEMBRE

11  settembre

2001-2011 dieci anni dal doppio attentato alle Torri Gemelle di New York. Ricorrenza che viene in questi giorni ricordata seguendo una sorta di countdown che porterà all’ora, al  minuto e al secondo del  nuovo Big Bang della storia della Terra. Big Bang perché dall’11 settembre 2001 in poi, il tempo è stato vissuto in funzione di un prima e di un dopo attentato.

Questi ultimi dieci anni gli uomini e le donne del Pianeta li hanno vissuti confrontandosi con l’inimmaginabile. Nuove categorie di pensiero  si sono  attivate nella mente umana  per comprendere il senso di quanto era accaduto in quegli attimi tragici,  che hanno lasciato impresse per sempre immagini che nessuna  produzione fantastica avrebbe mai osato  pensare prima.

È proprio sul  prima che vorrei focalizzare l’attenzione di questa mia riflessione,  stimolata dal conto alla rovescia   cui siamo indotti in questi giorni, ricordando il tragico anniversario dell’ 11 settembre che si sta approssimando.

Quando siamo protagonisti di un  episodio  traumatico,  accade spesso di sospendere il ricordo dell’evento stesso, dimenticandolo per un certo periodo di tempo, di durata soggettiva, insieme a quanto  accadeva prima dell’evento amnesiogeno.  L’amnesia retrograda consente di non essere travolti da una sovrastimolazione  di emozioni, che il ricordo del trauma produrrebbe, avviando un  processo di graduale adattamento alla rievocazione mnestica.

L’11 settembre ha modificato questo meccanismo difensivo della psiche, in quanto il ricordo dell’evento non si è mai cancellato, neanche per un istante, mentre  si è persa la memoria di ciò che accadeva prima.  La sensazione è che l’attentato abbia   creato un   buco nero dove la storia dell’umanità sia  precipitata subendo una sorta di oblio.  Come se l’evento traumatico  avesse ridimensionato  tutti gli accadimenti precedenti, perché  inutili rispetto  alla possibilità     dell’essere umano di   prevedere  quale mostro la mente  potesse partorire.

La fantasia umana nei secoli aveva prodotto paure, credibili,  legate ad invasioni di extraterrestri,  a risvegli di dinosauri, a  pioggia di meteoriti,  a virus letali, ma mai  ad uno schianto di aerei   di tali proporzioni, così vero da lasciare increduli.  Un oblio, quindi,   frutto di un pensiero annichilito  che ha minato la storia della memoria, la nostra storia fatta di grandi eventi, ma anche di piccoli eventi quotidiani dove attingere il senso dell’11 settembre.

A questo punto,  la domanda delle domande da porre  potrebbe essere:  quale  lettura  può aiutarci a recuperare la nostra memoria   del pre-evento per   capire il post-evento?

Tra le tante immagini che scorrevano  sui mass media per documentare e testimoniare il doppio attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, una  in particolare è  rimasta nella mia memoria: un’ombra che corre!

La sequenza descritta apparteneva ad un filmato di una persona che scappava dalle Torri tenendo la sua handycam   con l’obiettivo rivolto all’indietro. È  stato istantaneo pensare a quella parte  inconscia della personalità che Carl Gustav Jung  ha chiamato Ombra e a quanto ha scritto  (in seguito  pubblicato profeticamente nell’undicesimo volume della sua Opera):”Ognuno di noi è seguito da un’ombra  e meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo, tanto più è nera e densa.” (Jung C.G., Opere, 11,  Boringhieri, Torino,pag. 82)   Nera  e densa come la nube che ha avvolto New York, ove qualcuno ha voluto vedere i tratti somatici del diavolo (vedi foto di La Repubblica del 16/09/2001).

Più la nostra Ombra è isolata dalla coscienza e più esse erompe improvvisamente come sembra essere accaduto negli attentati, così repentini nella loro imprevedibile violenza distruttiva.  In quest’ombra che corre e che rincorre il suo corpo, c’è la sintesi della totale inconsapevolezza nella quale l’essere umano è vissuto negli ultimi decenni. Chi scappava, riprendendo le immagini di Ground Zero per documentare la  morte di tante persone, non  si rendeva conto che stava testimoniando quanto l’essere umano fugga da se stesso, dalla sua memoria  e dal suo nemico interno che prende le sembianze del mostro di turno, lasciandogli   l’illusione di essere sempre e solo vittima.

A questo punto  per recuperare la memoria del pre-evento  e per capire il post-evento è necessario non rimanere imprigionati nell’inimmaginabile, e quindi nella paura, ma nel provare a fare luce su quella zona d’ombra che rende poco visibile     il confine tra l’inconsapevolezza e la consapevolezza di sé  per poterlo valicare nel cammino  salvifico della ricerca del senso dell’esistenza.

Il telomero della Terra

IL TELOMERO DELLA  TERRA

In questi giorni si leggono articoli sul test   cui un essere umano può  sottoporsi  per conoscere la propria aspettativa di vita basato sulla lunghezza o meno dei telomeri. Finalmente gli uomini e le donne del pianeta Terra potranno sapere quanto sarà lunga la propria vita, ponendo fine alla paura atavica e ancestrale della imprevedibilità della morte!  Ma la nostra vita è così  biologicamente determinata, al punto di essere puri e semplici testimoni del tempo che passa, rendendo inutile qualunque progettualità di vita?  E poi, c’è bisogno di un test per sapere e comprendere che la vita è  comunque breve, rispetto all’infinito dell’universo?    Non è forse utile iniziare ad essere consapevoli che la vita va vissuta aldilà della sua durata, in funzione del suo percorso e non della sua  meta?

Un test sarebbe più utile sottoporlo al pianeta Terra che ci ospita e che  noi esseri umani stiamo consumando  pensando ai nostri  telomeri piuttosto che a quelli della Terra, che, per quanto lunghi, prima o poi  esauriranno la loro funzione. Il test sulla durata della vita può servire a riflettere sull’essenza  della vita stessa, rendendosi consapevoli che il  telomero, corto o lungo, non può e non deve  esimerci dalla responsabilità che abbiamo, rispetto alla nostra vita e a quella di chi ci succederà, nel percorso dell’esistenza della specie.  La transitorietà dell’essere umano sulla Terra è  evidente ed è anche uno dei motivi della difficoltà a  sentire di appartenervi, ma sapere quanto si è transitori non ha alcuna importanza,  se non per ridimensionare la presunzione di immortalità  di chi   perde il contatto con se stesso.

Il popolo dei carrelli e dei passeggini


 

A chi non è capitato di vedere persone  con dei carrelli della spesa o dei passeggini per bambini, fermi davanti ai cassonetti dell’immondizia intenti a cercare cibo ancora commestibile oppure oggetti da riutilizzare o rivendere?

Qualche anno fa i clienti del cassonetto erano sporadici, oggi sono sempre più frequenti  e sempre più diversificati.

Oggi il popolo  dei bisognosi non è più quello che il nostro immaginario collettivo vestiva con abiti consunti o rattoppati, oggi  il popolo dei bisognosi  attraversa trasversalmente la nostra società, ad esso appartiene chi non trova più risorse per sostenere se stesso  e non è più riconoscibile dalle toppe sui vestiti.

Ricordo un film, di qualche decennio fa, in cui Vittorio De Sica interpretava un personaggio   la cui povertà  lo costringeva a coprire una toppa, o una lacerazione del tessuto, sui suoi pantaloni con un giornale, per non mostrare la sua indigenza  e non  perdere la sua dignità. La  “toppa” differenzia la povertà ritratta nel film  neorealista  da  quella di oggi,  perchè  nella  società contemporanea  non c’è più bisogno di arrivare al buco da consunzione per essere poveri.

Il popolo dei cassonetti, infatti, è rappresentato dal rom, dal pensionato, dal disoccupato, da chi ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese con il proprio  stipendio, dal senza tetto o  dall’immigrato clandestino.

L’espressione “….è caduto in disgrazia”   per indicare qualcuno che aveva perso lo  status sociale a cui apparteneva, attualmente non è più usata, forse perché non  è necessario arrivare a perdere la grazia e quindi essere “senza grazia” per  impoverire. L’uso del carrello  per il cassonetto,  offre l’immagine di persone che si muovono  alla ricerca sistematica, quasi organizzata, di qualcosa di utile, come andare a fare la spesa in un supermercato. L’uso del passeggino, invece, sollecita l’immagine, più inquietante,  della ricerca  di cibo per un bambino che si spera non sia il destinatario  di quanto verrà trovato.

L’infoltirsi di questo popolo sollecita delle riflessioni su quanto l’impoverimento possa riguardare  principalmente lo stato d’animo dell’essere umano, in questi tempi  in cui  il nutrimento  culturale  è sempre meno ricco di  stimoli  che possano attivare un rinnovamento costante  della creatività  e   produrre  idee.  Tant’è che   non tutti gli esseri umani riescono a tenere vivo dentro  se stessi il fuoco salvifico della progettualità,  lasciandosi andare  alla passività  e al pessimismo.

Questi uomini e queste donne  dei carrelli e dei passeggini  forse hanno la  sensazione   che la Terra, invece di compiere il  proprio moto di rotazione intorno all’asse terrestre, si sia aggrappata ad esso per non cadere nell’oblio dell’universo, così come loro  stessi  si aggrappano alla  speranza di trovare tra i rifiuti qualcosa  di inutile per gli altri, ma  di utile per sé, scavando nei luoghi dell’oblio dell’umanità.

Paradossalmente,   più scavano e più cercano inconsapevolmente di salvare se stessi dall’oblio, attraverso il riciclaggio di ciò che trovano.

Nei film di carattere poliziesco  per lo più americani, spesso gli investigatori cercano tra i rifiuti dell’abitazione, dove si è consumato un delitto, elementi  che possano aiutare le indagini e spesso giungono a  considerazioni relative allo stile di vita della vittima. A questo punto ci si potrebbe chiedere  a quali considerazioni  giunga  l’esercito  di uomini e di donne che fruga   nei cassonetti  nei confronti degli  abitanti di una  zona della città. Il cassonetto, per esempio, potrebbe essere utilizzato per liberarsi fisicamente di ricordi (fotografie, lettere, oggetti, etc.),  di fardelli colmi del frutto di un lavoro scaduto, di  libri mai letti o mai scritti,  e allora ci si chiede:  quante porzioni di vita   si  troveranno tra i rifiuti,  appartenute  a  chi  ha creduto  di potersene   liberare  con un  “semplice  gesto sversante”?

Il popolo dei carrelli ci conduce a   cercare lì, dove nessuno cercherebbe mai, e cioè in fondo alla nostra coscienza, per comprendere   quanto a volte  ci si separi da  dolorosi contenuti dell’esistenza,  senza una  adeguata  elaborazione, al punto di  vederli   tornare rianimati  ed infliggere ancora sofferenza. In fondo, questo piccolo popolo scava nelle nostre coscienze insegnandoci a capire che  forse dovremmo essere più attenti   a quel segmento di vita da cui ci stiamo separando, senza  un intimo convincimento.

Separarsi dal vecchio è necessario per poter fare spazio al nuovo, ma il trasloco, emotivo ed affettivo,  deve avvenire alla luce della consapevolezza, altrimenti tutto riaffiorerà sotto nuova forma, ma immutato, grazie al piccolo popolo.